«Esiste una medicina che cura e una che previene. Ci sono malattie che si contraggono da acqua, cibo, aria e dai luoghi che si frequentano».
Con queste parole di Ippocrate il filosofo Umberto Galimberti ha iniziato la sua lectio magistralis che ha chiuso la manifestazione dedicata ai 50 anni di Suolo e Salute. Nel supplemento n.32 di Terra e Vita dedicato al cinquantennale di Suolo e Salute, è stato riservato un capitolo all’intervento del filosofo: Mangio, dunque sono.
DI SEGUITO L’ARTICOLO CHE TROVATE SU TERRA E VITA:
“L’alimentazione stabilisce esattamente la nostra identità. È il filo che unisce uomo e natura. La strada del biologico come soluzione per riannodare questo filo senza rinnegare l’uomo, la sua conoscenza e la sua competenza
Trovare cibo per sé e cercare di non diventare cibo per altri. Sono quelli che Umberto Galimberti chiama problemi storici (e addirittura preistorici) dell’umanità. «Il secondo lo abbiamo risolto, il primo in realtà no». Per rendersene conto basta fare caso all’ansia dei consumatori dispersi tra le corsie dei supermercati. «Prendono in mano un prodotto e ne studiano l’etichetta come fosse la “Critica della ragion pura”. Poi lo rimettono a posto e ne studiano un altro». Insomma, non ci si fida più di quello che si mangia. Un problema che travalica la dimensione fisica e che condiziona quella spirituale e intellettuale perché, come ricorda Galimberti: «il cibo stabilisce esattamente la nostra identità».
In che modo? Il filosofo, sociologo, psicoanalista e accademico monzese lo ha spiegato ai 300 spettatori in religioso silenzio, venuti a Palazzo De’ Toschi a Bologna per festeggiare il 50° compleanno di Suolo e Salute, ma anche per ascoltare la sua Lectio magistralis sul “Cibo come metafora dell’esistenza”.
Il potere del controllo sociale
«Il gusto – spiega – è un senso arcaico e intransigente, collegato con il cervello antico, ovvero il centro delle nostre emozioni». Questo perché, prima dell’invenzione dell’agricoltura, quando eravamo un popolo nomade di cacciatori e raccoglitori, chi assaggiava cose nuove lo faceva a suo rischio e pericolo e doveva subito stabilire se erano buone o velenose. Un rischio notevolmente abbassato dalla scoperta della cottura dei cibi, che secondo il filosofo Claude Levi Strauss ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo della nostra intelligenza sociale. L’antropologo Craig Stanford offre un’intrigante alternativa fondata su un’osservazione scientifica raccontata nel libro “Le scimmie cacciatrici”. Dove afferma che ciò che ha reso unici gli esseri umani è stata la carne o, meglio, il controllo sulla sua condivisione. Un “potere” che sarebbe all’origine della gerarchia delle società patriarcali. L’alimentazione però è femmina e Galimberti formula una tesi ancora più radicale, ovvero che il cibo non condiziona solo il rapporto con la società, ma con noi stessi. Bulimia e anoressia sono infatti malattie sempre più diffuse ma solo, e non è un caso, nella società occidentale, dove il cibo è l’ultimo invisibile filo che ci lega alla nostra cultura, l’unico residuo testimone dell’antico equilibrio tra uomo e natura.
Una piccola ancora a cui ancora oggi ci aggrappiamo per risolvere il classico dubbio amletico. Quello che nella sua opera “Nuovo Dizionario di Psicologia. Psichiatria, Psicoanalisi, Neuroscienze” Galimberti definisce come il problema più drammatico per l’uomo moderno, ovvero: «esisto o non esisto?».
La civiltà subordinata al profitto
Un ruolo compreso e sfruttato da tutte le religioni, che hanno da sempre imposto regole e penitenze alimentari.
Ma nella nostra epoca il digiuno è diventato dieta. Ha perso il ruolo sacrale di ricerca del controllo di sé ed è stato banalizzato passando dall’etica all’estetica, giustificato solo dalla ricerca del riconoscimento da parte degli altri. Facendoci perdere così un’importante pietra di paragone, il regolatore simbolico di tutti i valori. «Così non si sa più cosa è sacro, cosa è giusto e si ragiona solo in base a ciò che è utile. Ma la civiltà non si regge se è subordinata al profitto». Così la guerra al cibo dichiarata dai 2,5 milioni di individui che in Italia soffrono di disturbi alimentari ha ragioni profonde che nascono dalla necessità di esercitare il controllo su tutto, vincere su ciò che ci tiene legati alla società, alla famiglia, alla vita.
L’estrema disponibilità di alimenti innesca così l’illusione di poter negare l’evidenza, ovvero che «l’uomo è ciò che mangia», come diceva il filosofo Ludwig Feuerbach. Ma purtroppo non è un paradosso. Galimberti asserisce continuamente durante l’esposizione di essere greco, non nel senso geografico ma culturale.
In quale ambiente cresce infatti il cibo che mangiamo? La natura non è più l’arcadico luogo di abitazione dell’uomo, come la concepivano gli antichi greci. Oggi subiamo, impauriti e colpevoli, fenomeni estremi naturali provocati dai mutamenti climatici, con conseguenze devastanti per l’uomo e il suo ambiente. Chi ha portato l’uomo all’abuso della terra e dunque alla sua usura?
L’età della tecnica ci ha illuso di poter “dominare” in maniera irresponsabile la natura.
L’età della tecnica
L’agricoltura ne è la dimostrazione più lampante: abbiamo sfidato le leggi che sono alla base della nostra stessa evoluzione, eroso la biodiversità ed alterato i cicli degli elementi. Scatenando così il Prometeo che gli dèi avevano incatenato, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è più strumento nelle mani dell’uomo ma è l’uomo a trovarsi nella condizione di mero ingranaggio dell’apparato tecnico.
Lo dimostrano, secondo Galimberti, quelle che lui chiama «vere e proprie perversioni» come le farine animali somministrate agli erbivori fino alle conseguenze estreme dello scandalo della vacca pazza, la concezione del cibo come materia prima destrutturata, fino a conseguenze come quella del vino al metanolo. Lo dimostra il continuo richiamo alla necessità di crescita economica di una società come quella occidentale. Dove il 20% dell’umanità consuma oltre l’80% delle risorse terrestri proprio per rincorrere questa impossibile crescita.
L’obiettivo della tecnica è infatti quello di ridurre – fino ad annullarla – la distanza tra mezzo e scopo. Fino a metterci a disposizione in ogni momento qualsiasi tipo di cibo, anche etnico e fusion(«elementi estranei alla nostra memoria sensoriale che mettono in confusione il nostro cervello antico»). «Ma è proprio nell’intervallo temporale tra desiderio e sua soddisfazione che, come diceva Freud, si rafforza la nostra psiche». L’attesa non ci sottrae tempo, ma ci dona consapevolezza.
La strada scelta dal bio
Come se ne può uscire? Non certo, secondo Galimberti, affidandoci a divinità o a forze astrali. Come possiamo guarire? Ippocrate, padre della medicina occidentale raccomandava: «un medico deve sapere dell’uomo proprio ciò che mangia, che beve e il suo regime di vita, per sapere per ognuno cosa ne deriva».
Ovvero occorre fare “medicina preventiva”, un insegnamento ancora oggi trascurato. Ma non si tratta di recuperare antiche saggezze, è bensì la dimostrazione che l’uomo ha in sé e nelle sue competenze la capacità di salvarsi facendo tesoro dei propri errori. «Anche di fronte alla catastrofe tecnica, il rimedio non può che essere tecnico». Nella tecnica il negativo è solo un errore che si offre alle procedure tecniche per la sua correzione. Un po’ quello che fa il biologico, un settore che non rinuncia affatto all’innovazione tecnica, ma che predica il rinnovamento dell’agricoltura partendo dalla correzione degli errori fatti con l’abuso della chimica di sintesi. Con l’obiettivo di salvaguardare l’ambiente ma anche per riconquistare la fiducia dei consumatori, curandone l’ansia di essere avvelenati. «E far sì – conclude Galimberti – che il cibo torni ad essere un luogo di amore, come diceva Platone nel Simposio e non un luogo di guerra».”
Fonte: https://terraevita.edagricole.it/archivio/mangio-dunque-sono/