Suolo e Salute

Autore: admin

Cosmesi naturale e bio, l’indagine: fondamentale per 7 italiani su 10

950 milioni di euro: tanto vale la cosmesi naturale e bio in Italia.

Se nel suo complesso il settore cosmetico arriva a sfiorare gli 11 miliardi, il comparto del make up green e cruelty free arriva oggi al 9% del totale. I dati sono emersi da un’indagine di Cosmetica Italia, relativa alle stime per l’anno in corso.

E il trend sembra essere in crescita: Human Highwayha recentemente realizzato un’indagine in cui emerge che più della metà degli italiani guarda con favore alla produzione sostenibile ed etica dei cosmetici.

Tutti i dettagli del report.

Cosmesi naturale: uno sviluppo decennale

Human Highwayè l’associazione nazionale delle imprese del settore della cosmesi naturale e bio. Di recente ha pubblicato i risultati di un’indagine sui consumatori italiani sul tema. 1.600 i consumatori coinvolti, a cui va ad aggiungersi un panel di 58 imprese associate a Cosmetica Italia.

Il trend, è il chiaro risultato della ricerca, è in forte crescita. Ed è destinato a essere sempre più forte.

7 consumatori italiani su 10, infatti, pensano che “la produzione sostenibile e attenta all’ambiente e ai vincoli etici” sarà un volano fondamentale per lo sviluppo del settore cosmetico nei prossimi 10 anni.

Via libera quindi alla cosmesi naturale, cruelty free e con ingredienti provenienti da produzioni biologiche. Sono 3 le parole d’ordine che accompagneranno domanda e offerta nel comparto, secondo Human Highway: “Innovazione, efficacia e naturale”.

In particolare, fanno sapere gli esperti, i consumatori sono interessati soprattutto ai concetti di biologico, economico e naturale. Le imprese sono invece maggiormente focalizzate su sicurezza e lunga durata.

La cosmesi naturale nella percezione dei consumatori

Ma a cosa pensano esattamente i consumatori quando parliamo di cosmesi naturale?

Human Highway stila una classifica dei “valori” associati con maggior frequenza a tali prodotti:

  • Il 34,3% degli intervistati pensa in primis a trucchi e prodotti cruelty free, che non prevedono cioè l’impiego di test animali;
  • Il 25,3% parla invece di prodotti che non contengano ingredienti considerati pericolosi, causa di allergie o poco sostenibili: glutine, olio di palma, parabeni e così via;
  • Il 22,1% si riferisce alla categoria “bio-friendly”;
  • Il 20,6% pensai al make up “eco-friendly”;
  • Importante, per il 16,3%, anche l’aspetto sociale: attenzione a lavoratori e territorio;
  • Ultime 3 categorie interpellate: prodotti vegani (11,2%), a km zero (9,2%), a ridotto consumo d’acqua (8,1%)

Ancora, è importante prestare attenzione all’impatto ambientale del packaging. Per il 47% dei clienti è importante che i contenitori di cosmetici siano biodegradabili al 100%. Anche i produttori condividono questo orizzonte, in misura ancora maggiore: il 66% ritiene sia un aspetto fondamentale.

Cosmesi naturale: l’appuntamento al Sana

Per dimostrare l’accresciuto interesse verso la cosmetica naturale e green, il Sana 2017 ospiterà un convegno a tema. Il Sana è il Salone internazionale del biologico e del naturale, una kermesse di portata globale, fiore all’occhiello del comparto italiano. Quest’anno, l’appuntamento è in programma a Bologna Fiere dall’8 all’11 settembre.

Domenica 10, il Sana ospiterà il convegno “Quale futuro per la cosmetica green?”. Rivolto a erboristi, distributori, aziende e media, l’evento è organizzato dal Gruppo Cosmetici erboristeria di Cosmetica Italia. Interverranno Giacomo Fusina, CEO di Human Highway, e Gian Andrea Positano, responsabile del Centro studi e cultura d’impresa di Cosmetica Italia.

FONTI:

http://www.adnkronos.com/salute/2017/08/19/cosmetici-green-valgono-mln-vuole-etici-sostenibili_BX5RW2fZ2lwVn0RQQc1LvM.html?refresh_ce

http://www.sana.it/home-page/1229.html

Poison Papers, i documenti dei veleni che accusano Monsanto e altre società

Poison Papers: i documenti dei veleni.

Li hanno chiamati i Poison Papers: una raccolta di 20mila documenti raccolti quasi interamente da Carol Van Straum, 76enne americana, scrittrice e ambientalista. Cosa contengono? “Note riservate, lettere interne, verbali di riunioni e studi scientifici che mostrano le avanzate conoscenze che i grandi gruppi della chimica mondiale[…] avevano a disposizione”, riassume L’Espresso.

Van Straum aveva sinora catalogato e archiviato i documenti in formato cartaceo, per un totale di quasi 3 tonnellate di carta. Il Bioscience Resource Project, organizzazione non-profit che ha come obiettivo la divulgazione di informazioni scientifiche sulla sicurezza alimentare e il benessere del pianeta, ha deciso di digitalizzare i documenti raccolti. Realizzando così uno dei più grandi archivi sull’argomento.

All’interno viene dimostrato come “sia le aziende che gli enti di vigilanza conoscessero la straordinaria tossicità di molti prodotti chimici prodotti”,scrivono dal Bioscience Resource Project in una nota. Una conoscenza nota molto prima che la loro pericolosità venisse resa pubblica. Aziende ed enti, però, avrebbero “lavorato insieme per celare tali informazioni al pubblico e alla stampa”.

Citate, tra le altre, Monsanto e DuPont, Union Carbide e Dow. Aziende che avrebbero avuto a disposizione “già negli anni ’70 [documenti] sulla tossicità di erbicidi, pesticidi e composti chimici”.

La vicenda dei documenti sui veleni e di Carol Van Straum inizia nel 1974, in Oregon. E arriva fino in Italia, a Brescia, dove sono stati scoperti 300 ettari di terreno contaminati, coinvolgendo 25mila abitanti.

Carol Van Straum e i documenti sui veleni: tutto ebbe inizio con un pesticida

Il sito d’informazione The Intercept ha raccontato la storia di Carol, sottolineando alcune rivelazioni contenute nelle 100mila pagine sui veleni raccolte nei Poison Papers.

Carol comincia a raccogliere documenti nel 1974. Insieme alla sua famiglia, in quell’anno si trasferisce nella foresta di Siuslaw, in Oregon. Vuole vivere una vita semplice, immersa nella natura. Subito dopo, però, scopre che la Forestale locale utilizza sulle piante un erbicida chiamato 2,4,5-T.

Il prodotto era stato precedentemente utilizzato in Vietnam dall’esercito americano. Uso sospeso quasi subito, perché era stato reso noto un collegamento con casi di cancro, aborti e altri problemi molto gravi a persone, animali e all’ambiente.

Ma la Forestale continua a usare il componente in USA dal 1972 al 1977. 20mila libbre (circa 9mila chili) vengono spruzzate dalla Forestale nei dintorni della casa dei Van Strum in quegli anni. E i bambini di Carol soffrono di epistassi, diarrea con tracce di sangue, mal di testa. Molte donne della zonasono colpite da aborti spontanei.

Infuriata, Carol e una vicina querelano la Forestale per l’utilizzo dell’erbicida. Ottenendo un bando temporaneo nel 1977 e il divieto totale 6 anni dopo.

Ma nei documenti sui veleni raccolti dalla donna c’è molto di più. Tra le aziende citate, la Monsanto. Alcuni documenti, tratti dall’Industrial Bio-Test Laboratories, sono per esempio diventati molto importanti in un caso che riguarda il Roundup. John Sanders e Frank Tanner, due agricoltori californiani, hanno contratto il Linfoma Non Hodgkin, sostengono, dopo aver utilizzato l’erbicida. Secondo loro, i componenti presenti al suo interno sarebbero responsabili della malattia.

Carol Van Strum ha raccoltoin 40 anni una documentazione fittissima su questi argomenti. Sia per sé, che per amici, conoscenti o perfetti sconosciuti che le chiedevano un aiuto. Una battaglia contro i veleni che l’ha accompagnata fino a oggi.

Monsanto e i veleni di Brescia

Tra le carte, emerge anche un collegamento con l’Italia. Nel caso, che riguarda un’azienda di Brescia, pare che Monsanto si sia dimostrata maggiormente sensibile nei confronti della salute delle popolazioni locali. Peccato che l’impresa italiana non sia stata altrettanto accorta.

Si parla di Pcb, policlorobifenibili. Brevettati nei primi anni ’30 da Monsanto,sono stati utilizzati, fino agli anni ’80 come isolanti nei trasformatori.Tali composti sono stati vietati per la prima volta nel 1972, in Giappone. L’azienda Caffaro di Brescia ha prodotto sin dagli anni ‘30 tali sostanze, su brevetto Monsanto.

Secondo quanto riporta l’Espresso, che cita i Poison Papers, già nel 1970 la Monsanto avvertiva la società bresciana, della pericolosità dei composti.

Secondo alcuni documenti, infatti, in 3 incontri riservati a Francoforte e Bruxelles la Monsanto ha informato la Caffaro e altre due società produttrici, una francese e la tedesca Bayer, dell’estrema pericolosità dei Pcb.In effetti già nel 1969 veniva pubblicato il Monsanto Pollution Abatement Plan, in cui la multinazionale discuteva la necessità di mettere al bando i composti.

Eppure, Caffaro ha continuato a produrre il “Fenclor” (denominazione commerciale del Pcb) fino al 1984, per 15 anni. Oggi il Ministero dell’Ambiente stima il danno ambientale prodotto in almeno 1,5 miliardi di euro. I 10 chilogrammi di Pcb che ogni giorno sarebbero fuoriusciti dalla fabbrica, avrebbero contaminato 300 ettari di terreno. 25mila gli abitanti coinvolti. Nella popolazione bresciana più esposta, sono stati individuati livelli di Pcb nel sangue tra i più elevati al mondo. L’Istituto Superiore di Sanità ha inoltre riscontrato, nel 2014, un aumento dell’incidenza di tumori collegati alla sostanza. Un esempio su tutti, i tumori della mammella: +25% per le donne del luogo.

INFO:

https://www.poisonpapers.org/

http://www.prwatch.org/news/2017/07/13269/poison-papers-expose-collusion-industry-regulators-hazardous-pesticides-chemicals

https://theintercept.com/2017/07/26/chemical-industry-herbicide-poison-papers/

https://theintercept.com/2016/05/17/new-evidence-about-the-dangers-of-monsantos-roundup/

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/08/17/news/pcb-i-veleni-prodotti-in-italia-nonostante-gli-allarmi-sulla-loro-pericolosita-1.308097

Climate Change e bio: il ruolo dell’agricoltura nel riscaldamento globale

Climate Change: l’agricoltura, e in particolare quella biologica, può fare qualcosa per arrestare il riscaldamento globale?

Una risposta a questa e a tante altre domande hanno provato a darla le organizzazioni mondiali che dal 21 al 23 marzo 2017, presso la sede della FAO a Roma, hanno preso pare al Global Symposium on Soil Organic Carbon (GSOC17). Oggi vengono pubblicati i dati, le relazioni e i report diffusi in quei giorni. La speranza c’è e viene dal bio.

GSOC17: il punto sul Climate Change

Ad organizzare il simposio, alcunetra le più importanti organizzazioni mondiali che si occupano di Climate Change e della distribuzione delle risorse alimentari tra i popoli:

  • Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO);
  • Global Soil Partnership (GSP) e il suo Intergovernmental Technical Panel on Soils (ITPS);
  • Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC);
  • Science – Policy Interface (SPI) of the United Nations Convention to Combat Desertification (UNCCD);
  • World Meteorological Organization (WMO).

Durante l’evento si sono susseguiti 103 interventi orali e 35 presentazioni sulla misurazione, conservazione e valorizzazione del carbonio organico nel suolo di diverse aree del mondo. Obiettivo era rivalutare il ruolo del carbonio organico in relazione al Climate Change, allo sviluppo sostenibile e alla neutralità del degrado nel suolo.

Il simposio si è incentrato principalmente su tre tematiche:

  • Valutazione del carbonio organico nel suolo (SOC) (misurazione, mappatura, monitoraggio e segnalazione delle scorte)
  • Manutenzione e aumento degli Stock del SOC (come mantenerli e/o aumentarli)
  • Gestione del carbonio organico in specifiche tipologie di terreno (terreni a elevata concentrazione, praterie, sistemi di allevamento, terreni secchi).

Climate Change: il ruolo dell’agricoltura biologica

Nei giorni scorsi, la FAO ha reso noti gli atti del Simposio. Nel documento, sono contenuti gli abstract di tutte le presentazioni scientifiche che si sono tenute durante l’evento.

Tra queste, è incluso anche il contributo di IFOAM – Organic International, l’organizzazione che raccoglie attori e appassionati del biologico di tutto il mondo.

Le conclusioni a cui giunge IFOAM nel suo intervento dipingono l’agricoltura biologica come strada percorribile e necessaria per combattere il Climate Change.

Secondo l’Organizzazione, per aumentare lo stoccaggio di carbonio nel terreno non sarebbe utile investire in tecnologie costose, potenzialmente pericolose e non provate. Sarebbe sufficiente, infatti, puntare maggiormente sull’agricoltura rigenerativa, le cui pratiche sono già ampiamente riconosciute e applicate. I tassi di stoccaggio di carbonio potrebbero poi essere ulteriormente migliorati attraverso la ricerca.

Questo trasformerebbe l’agricoltura in un importante strumento risolutivo nella lotta al Climate Change. L’adozione diffusa di questi sistemi dovrebbe essere di massima priorità da parte dei governi, delle organizzazioni internazionali e dell’industria.

Fonti:

https://www.ifoam.bio/en/news/2017/08/21/proceedings-global-symposium-soil-organic-carbon-2017

http://www.suoloesalute.it/carbonio-organico-nel-suolo-salvare-clima-ruolo-dellagricoltura-bio/

http://www.fao.org/3/a-i7565e.pdf

Continua la crescita del mercato bio

Mercato bio perennemente in crescita.

Continua imperturbabile la crescita delle vendite dei prodotti certificati da agricoltura biologica, che nell’anno terminante a marzo 2017 soltanto nel canale iper+super hanno incassato oltre 1,27 miliardi di euro, in crescita del 19,7% rispetto all’anno precedente (fonte Nielsen).

Il che è già piuttosto sorprendente in termini assoluti, dato che dal 2008 a oggi, in barba alla crisi, il comparto bio ha saputo triplicare il proprio valore di mercato (411 milioni di euro era il fatturato nel 2008 nello stesso canale).

Il dato più eclatante emerso dalla ricerca di Nielsen riguarda il contributo del bio alla crescita dell’alimentare nel suo complesso.

Nell’ultimo anno, le vendite dell’intero comparto hanno registrato un incremento di 419 milioni di euro, per il 40% imputabile alla crescita realizzata dal biologico (166 milioni). Da 20 anni la crescita è costante.

Una rivoluzione strisciante quella compiuta dai prodotti derivati dall’agricoltura senza chimica, una volta relegati nelle bottegucce alternative, frequentate da un target altrettanto alternativo o nella migliore delle ipotesi bollato come radical-chic.

Poi l’ingresso, graduale e senza dar fiato alle trombe, nei pdv della grande distribuzione, in una prima timida fase su appositi scaffali dedicati al benessere (nel segno del proseguimento della ghettizzazione) e poi via via a integrare le varie merceologie per arrivare, oggi, a rappresentare un ampliamento irrinunciabile per tutte le linee mdd delle insegne della gdo, oggi quasi tutte presenti con gamme dedicate che assorbono più del 40% del totale vendite bio e registrano un incremento annuo a valore superiore al 16%.

Il principale driver delle vendite in gdo è dato dalla crescita assortimentale: con una media di 191 referenze a scaffale (erano 146 un anno fa) gli assortimenti bio presenti, in incremento del 30%, rappresentano il 23% dei nuovi inserimenti effettuati sul totale alimentare. E se le vendite promozionali segnano solo un leggero aumento (21,6% contro il 20 dello scorso anno), in netta crescita sono invece le inserzioni relative ai prodotti bio presenti nel 59% dei casi sui volantini delle catene.

A conferma del fatto che l’offerta bio, oltre a fare immagine, rappresenta un fattore determinante per incrementare le vendite e fidelizzare quella che non è più soltanto una nicchia. Del resto, l’offerta si sa per sua natura cresce di pari passo con l’aumento della domanda ed è ormai evidente anche ai più scettici che non si può più parlare del biologico come di un fenomeno di moda. Ad accompagnare oltre un ventennio di crescita continua del gradimento dei prodotti bio si possono citare tutta una serie di cambiamenti economico/sociali, nonché di eventi topici (citiamo Cernobyl per tutti), che hanno lentamente, ma progressivamente, cambiato il nostro rapporto con l’ambiente, l’alimentazione, la salute. E, vuoi per convinzione vuoi per costrizione, gran parte dei consumatori ha adottato tutta una serie di comportamenti (dalla raccolta differenziata all’abbandono degli shopper di plastica) che testimoniano uno stile di vita e di consumo più consapevole. Più attento al benessere e alla salute, ma anche, e finalmente, all’ambiente.
Un dato interessante emerso dalla ricerca di Nielsen per Assobio riguarda il consolidamento degli acquirenti abituali. Su un campione di 20,5 milioni di famiglie acquirenti ben 5,2 milioni (in crescita di oltre 800mila unità) hanno effettuato almeno un atto d’acquisto alla settimana, il che significa che il 76% degli acquisti bio si concentra sul 25%  delle  famiglie,  le  quali negli ultimi 12 mesi hanno contribuito per il 91% alla crescita complessiva degli acquisti bio.
Insomma, il terreno è pronto e sembra arrivato il momento per i retailer più coraggiosi di osare un poco di più per sostenere e incentivare la crescita di un comparto più che promettente. Certo occorrerà ancora tempo per arrivare a scelte più radicali come quelle già effettuate da insegne generaliste in Paesi dove la consapevolezza sui temi del green è più avanzata, ma sarebbe sbagliato dormire sugli allori.
Benessere sì, ma anche gusto e servizio: i consumatori bio non sono marziani, come dimostra il fatto che anche loro abbracciano le nuove tendenze alimentari e i nuovi stili di vita. Nel ranking dei prodotti che nel 2016 hanno evidenziato la maggior crescita a valore, troviamo anche le creme spalmabili dolci (+7%) guidate da un prodotto cult quale è la Nocciolata di Rigoni, recentemente proposta anche nella versione senza lattosio, che in poco tempo dal lancio si è posizionata al secondo posto dietro al leader storico della categoria. Seguono le bevande sostitutive del latte uht (+6,4%); la frutta secca senza guscio (6,4%), le insalate pronte (+6,3%), lo yogurt intero (+6,2%), i cereali prima colazione (+4,7%), i primi piatti pronti (+4,5%), la pasta senza glutine (4%). (Fonte: Nielsen Trade*Mis).

Riso italiano: decreto del Mipaaf per la salvaguardia del comparto

È crisi profonda per il riso italiano. Il nostro Paese è tuttora il principale produttore europeo: 1,8 milioni di tonnellate/anno, 4mila aziende, 234mila ettari coltivati. Risulta quindi essere un comparto essenziale per l’agroalimentare nostrano.

Non solo: è fondamentale per tutta l’economia della penisola.

Da qualche anno però, la forte importazione a dazio zero dai Paesi meno avanzati (Pma), ha messo in ginocchio i produttori, provocando un continuo calo dei prezzi. Il Mipaaf, il Ministero per le politiche agricole, prova a correre ai ripari. E ha appena approvato in via definitiva un decreto per tutelare il settore risicolo. Tutti i dettagli.

Riso italiano: i numeri della crisi

Nelle ultime 5 campagne di riso italiano, i prezzi si sono dimezzati. E il calo è costante: da dicembre, il risone italiano –il prodotto greggio, appena raccolto e non lavorato – ha visto un calo del 33,4%.

Da cosa dipende un crollo di tali proporzioni? Dalle importazioni, soprattutto. Solo nel 2016, nei Paesi dell’Unione Europea sono entrati, a dazio zero, 244 milioni di chili di riso, importati dall’Asia. Principalmente dal Vietnam: +346% in 12 mesi e dalla Tailandia (+34%). Oggi il 25% circa del riso venduto sugli scaffali italiani è di provenienza straniera. Ma non è possibile distinguerlo da quello Made in Italy perché ancora non esiste l’obbligo di provenienza in etichetta.

Tutto questo si ripercuote fortemente sui produttori italiani. Per pagarsi un caffè, informa Coldiretti, gli agricoltori italiani devono vendere ben 3 chili di risone. Nell’ultimo anno, l’associazione stima una perdita per i produttori di 115 milioni di euro nell’ultimo anno.

Riso italiano in crisi: il decreto del Mipaaf

Vista la profonda crisi del comparto, il governo prova a correre ai ripari. Dopo il parere positivo delle Camere e della Conferenza Stato-Regioni, il Ministero delle politiche agricole ha dato il via libero definitivo al decreto legislativo sul mercato interno del riso.

Ecco le principali novità:

  • La normativa sulla commercializzazione del riso, risalente al 1958, viene riorganizzata, semplificata e adeguata alla normativa europea;
  • Previste azioni per la salvaguardia delle varietà di riso italiane;
  • Istituzione del registro nazionale delle denominazioni dei risi, tenuto dall’Ente risi, attraverso la dotazione di strumenti giuridici fondati su criteri oggettivi e trasparenti per classificare e qualificare il patrimonio varietale italiano. Ad oggi, sono 200 le varietà di riso italiano iscritte;
  • Istituzione della denominazione “classico” in etichetta per dare valore aggiunto alle varietà di prodotto da risotto più note e maggiormente utilizzate;
  • Maggiore trasparenza delle denominazioni in etichetta, a tutela del consumatore;
  • Rafforzamento dei controlli.

Riso italiano, Martina: “Occorre un segnale forte da Bruxelles”

A commentare il provvedimento, il ministro per le politiche agricole, Maurizio Martina:

«Diamo il via a una riforma attesa da tanti anni che permetterà di tutelare e promuovere con ancora più forza un settore fondamentale come quello del riso. Con il decreto puntiamo alla semplificazione delle norme, alla maggiore valorizzazione delle varietà tradizionali italiane e alla sempre maggiore trasparenza in etichetta per il consumatore. Tre orizzonti di assoluta strategicità per tutto il Made in Italy».

Martina annuncia poi le altre misure in campo per tutelare il comparto. Spiegando che il decreto “si inserisce in una strategia più ampia a sostegno dei produttori risicoli in questa fase complessa”. Tra gli altri provvedimenti, Martina ricorda “il decreto per rendere obbligatoria l’indicazione dell’origine della materia prima sulle confezioni di riso” e il ricorso in Europa “perché venga attivata la clausola di salvaguardia prevista dai trattati Eba in merito all’importazione di riso a dazio zero”. Occorre, sull’argomento “un segnale chiaro da Bruxelles”, conclude il Ministro.

FONTI:

https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/11531

http://www.lastampa.it/2017/07/05/multimedia/economia/tre-kg-di-riso-valgono-un-caff-al-bar-cos-il-riso-italiano-ha-perso-valore-askBpK6ZyOBVGhHBG5ozbO/pagina.html

http://www.suoloesalute.it/import-selvaggio-riso-asiatico-pressing-italiano-ue-bloccarlo/

http://www.ansa.it/canale_terraegusto/notizie/mondo_agricolo/2017/04/13/riso-coldiretti-agricoltori-e-mondine-davanti-al-mipaaf_b39f609d-95a7-4143-afbb-06d5511d8ce3.html

Chi guida la qualità nell’agroalimentare? Italia al top in UE per Dop e Igp

Chi guida la qualità nel settore agroalimentare Ue? Si intitola così un’interessante infografica realizzata daAymone Lamborelle, Samuel White e Sarantis MichalopoulosEuractiv, che fotografa l’eccellenza nel settore agroalimentare Ue. I Paesi europei del sud, con l’Italia in testa, dominano per numero di prodotti certificati da denominazioni come Dop, Igp e Stg.

Ecco i dati più interessanti.

Dop, Igp e Stg: Italia numero 1 per certificazioni

Sono gli Stati del sud Europa a dominare la speciale ‘classifica’ del numero di prodotti agroalimentari identificati con una denominazione geografica. Italia, Francia, Spagna, Grecia e Portogallo detengono infatti il 70% del totale delle GIs.

Secondo Euractiv, che ha elaborato i dati della Commissione Europea, sono oggi 1.402 i prodotti alimentari che hanno una denominazione di origine geografica, tra Dop, Igp e Stg.

L’Italia è al numero 1 con 293 prodotti a cui è stata assegnata una denominazione di origine. È soprattutto il comparto ortofrutticolo a esprimere merci di qualità Mad in Italy: sono ben 110 le specialità nel settore. Seguono 52 tipi di formaggio e 46 tra olii e grassi.

Al secondo posto europeo, c’è la Francia, con un totale di 242, specializzata soprattutto nella carne. Poi la Spagna, che si aggiudica il gradino più basso del podio con 194 prodotti. Seguono Portogallo (138) e Grecia (104) nella top 5 europea.

Si tratta di numeri estremamente importanti per il comparto agroalimentare. Come spiegano infatti gli stessi autori, “in Europa (e nel mondo) le persone esigono sempre più spesso di conoscere la provenienza del loro cibo”. Determinate aree – pensiamo al ‘potere’ che ha ancora il Made in Italy sui mercati internazionali – sono diventate sinonimo di “autenticità e tradizione”.

I marchi di denominazione non sono quindi esclusivamente un fattore di accresciuto prestigio. Aumentano, anzi, il valore di mercato dei prodotti. Anche perché richiedono livelli qualitativi che beni simili non possiedono:

«Per far fronte alla crescente concorrenza globale, i produttori alimentari dell’Ue si concentrano sulla qualità delle loro merci, così da esser sicuri che queste possano rimanere attraenti per i consumatori».

Dop e Igp: valore di mercato e il problema contraffazione

I dati presenti nell’infografica Euractiv si riferiscono al 2014. 3 anni fa, i consumatori europei hanno speso complessivamente 48 miliardi europei per prodotti GI, con un’indicazione di origine. Le quote di mercato principali sono state raccolte dalle bevande. Vince, su tutti, il vino. Ecco la classifica dei prodotti più acquistati con relative quote di mercato:

  • Vino –54,3%
  • Liquori – 13,3%
  • Formaggi – 12,7%
  • Carne fresca (e prodotti a base di carne) – 7,6%
  • Birra – 4,6%
  • Frutta, verdura e cereali – 1,7%
  • Altro – 5,8%

A fronte di un mercato vitale e redditizio, si fa largo purtroppo la piaga della contraffazione. Sempre nel 2014, il 9% dei prodotti GI è stato contraffatto, per un danno complessivo di 4,3 miliardi ai produttori e di 2,3 miliardi ai consumatori Ue.

A farne maggiormente le spese la Francia, che ha perso 1,6 miliardi di euro a causa delle merci falsificate. Segue l’Italia con 682 milioni. Poi Germania (598 mln), Spagna (266 mln) e Grecia (235 mln).

Dop, Igp e Stg: una guida alle denominazioni

Presente nell’infografica anche una guida agile per chi non conoscesse le 3 denominazioni di origine presenti nell’Ue.

Dop: denominazione di origine protetta

A questa categoria appartengono 626 prodotti alimentari che sono “indissolubilmente legati ad una specifica area geografica. Sono prodotti trasformati e preparati nella regione interessata, utilizzando ingredienti e competenze locali”.

Igp: Indicazione geografica protetta

Sono 720 i prodotti alimentari a marchio Igp. In questo caso i prodotti sono “identificati con la regione specifica in cui vengono trasformati e preparati”, ma gli ingredienti di base utilizzati “non provengono necessariamente dalla regione di riferimento”.

Stg: Specialità tradizionali garantite

Meno conosciuta, alla sigla Stg appartengono 56 prodotti alimentari. In questo caso, i beni vengono “lavorati utilizzando ingredienti o tecniche tradizionali”, ma non c’è “una specifica area geografica” a cui ricondurli.

FONTI:

http://www.italiafruit.net/DettaglioNews/40565/in-evidenza/dop-e-igp-la-classifica-ue

http://classeuractiv.it/news/chi-guida-la-qualita-nel-settore-agroalimentare-ue-201707260853088719