Suolo e Salute

Category: Ecologia – Ambiente – Territorio

USA: un nuovo studio sui comportamenti d’acquisto bio e verdi

E’ stata condotta negli Stati Uniti nel mese di luglio un’indagine su oltre 5.000 consumatori che ha indagato stile di vita, atteggiamenti e comportamenti d’acquisto relative ai prodotti bio ed ecologici da parte dei cittadini americani. Lo scopo della ricerca, condotta da New Hope Natural Media, è stato quello di fornire alle aziende del settore del biologico una migliore informazione su come affrontare al meglio le richieste di un mercato sotto questo profilo molto dinamico e in continua evoluzione. I dati hanno consentito di tracciare cinque “profili-tipo”, relativamente ad altrettanti tipi di consumatore.

Il primo gruppo – identificato nella ricerca come Young4ever (“giovani per sempre”, letteralmente) – è composto da un pubblico prevalentemente maschile (il 56%, contro il 44% di donne) e attivamente impegnato a prendersi cura della propria salute. Rientra in questa segmentazione del mercato circa un quarto (il 24%) della popolazione statunitense. Si tratta di persone poco sensibili al prezzo e alla marca del prodotto, facilmente disposte a cambiare prodotto nel caso di nuove proposte ritenute migliori. Il 50% circa è composto da single, mentre il 38% ha figli di età inferiore ai 18 anni. Oltre un terzo di questo campione (il 37%) ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni.

Il secondo gruppo – il 21% della popolazione – si rivela invece particolarmente sulla salute e sul benessere  e risulta costituito in prevalenza da donne ( 58 %) . La metà dei consumatori appartenenti a questo gruppo sono sposati e un buon terzo ( 36 % ) ha figli. I consumatori di questa categoria richiedono un’accurata informazione sul prodotto e le sue caratteristiche. Anche qui è molto rilevante la percentuale di persone con età compresa tra i 18 e i 34 anni (il  42 %). Si tratta di individui disposti a pagare di più per prodotti biologici , a patto che sia comprovato il loro valore aggiunto per l’ambiente e per la salute.

 Le persone di questo gruppo amano condividere le loro conoscenze con gli amici e familiari, ed il passaparola si rivela pertanto fondamentale nel loro orientamento all’acquisto.

La terza ripartizione riguarda persone che, soprattutto per il prezzo più alto rispetto ai prodotti convenzionali, acquistano pochi prodotti biologici ed “ecofriendly”, preferendo seguire la tradizione e affidarsi ai consigli del proprio medico. Una porzione pari a circa un quinto della società americana (il 22%), in prevalenza donne (57%), in cui il 52 % ha più di 55 anni, il 66% è sposato e solo il 23 % ha figli al di sotto dei 18 anni di età .

Il quarto gruppo è composto invece da consumatori che lo studio definisce ironicamente “con la coscienza sporca”: oberati dal lavoro e stressati, spesso con prole numerosa, costretti ad acquisti veloci e con poco tempo (e voglia) di preoccuparsi attivamente della propria salute. Le donne sono anche qui la maggioranza (circa il 60%), ed oltre il 40% (42%, per l’esattezza) ha età compresa tra i 18 e i 34 anni.

Il quinto e ultimo segmento (18 % del totale) sono i consumatori che sanno (e possono) godersi  la vita. Le persone di questo gruppo rilassato e relativamente sano ama cucinare in casa, nella maggior parte dei casi è sposata (59%) e il 39% di loro ha figli di età inferiore ai 18 anni. Si tratta di un pubblico ben informato sui problemi legati ad una corretta alimentazione e alla salute, spesso legati ai marchi tradizionali ma che per motivi prettamente legati al gusto, spesso scartano i prodotti biologici o con alimenti naturali perché da loro considerati meno appetitosi.

Fonte : Oneco, Newhope360.com

Coldiretti: i cambiamenti climatici stanno condizionando pesantemente l’agricoltura italiana

L’uscita del nuovo rapporto dell’Ippc (il Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici) ha ribadito quanto gli scienziati vanno ripetendo da tempo: se non si adotteranno rapide ed efficaci iniziative per ridurre le emissioni di gas serra, andremo incontro a conseguenze che muteranno profondamente l’aspetto e l’equilibrio del Pianeta. Scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari, proliferare di fenomeni climatici estremi anche in zone non tropicali sono argomenti che tutti noi abbiamo avuto modo di conoscere negli ultimi anni. Ma per toccare con mano le conseguenze dell’influenza umana sul clima non occorre spingersi lontano dai nostri confini. Una nota Coldiretti a commento del rapporto focalizza la situazione nel nostro paese e pone l’accento sugli effetti che il mutamento del clima sta avendo sull’agricoltura italiana. “In Italia – si legge nella nota – si e’ chiusa una estate 2013 segnata da una temperatura media superiore di quasi un grado (+ 0,96 gradi centigradi) e dal 30 per cento di precipitazioni in meno”. “Se in Europa per alcuni ricercatori persino lo champagne si e’ dovuto inchinare ai cambiamenti climatici spostandosi nel sud dell’Inghilterra, secondo una analisi della Coldiretti il vino italiano e’ aumentato di un grado negli ultimi 30 anni. Ma si e’ verificato nel  anche un significativo spostamento della zona di coltivazione tradizionale di alcune colture come l’olivo che e’ arrivato quasi a ridosso delle Alpi. Nella Pianura Padana si coltiva oggi circa la metà della produzione nazionale di pomodoro destinato a conserva e di grano duro per la pasta, colture tipicamente mediterranee. Un effetto che si estende in realtà a tutti i prodotti tipici”. il riscaldamento provoca infatti anche – osserva la Coldiretti – il cambiamento delle condizioni ambientali tradizionali per la stagionatura dei salumi, per l’affinamento dei formaggi o l’invecchiamento dei vini. Una situazione che di fatto mette a rischio di estinzione il patrimonio di prodotti tipici Made in Italy che devono le proprie specifiche caratteristiche essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori umani e proprio alla combinazione di fattori naturali e umani”. Sta a noi, a questo punto, decidere se scelte più coraggiose e impegni più cogenti sono ancora rimandabili.

Fonte: Agrapress, Cnr, Coldiretti

Fao, un nuovo studio lancia l’allarme-sprechi

1,3 miliardi di tonnellate di cibo all’anno: questa ma mostruosa quantità di cibo che ogni anno viene sprecata secondo il recente rapporto Fao “Food Wastage Footprint: Impacts on Natural Resources”. La cifra è talmente grande da essere quasi inconcepibile, ma per rendersi conto più concretamente delle dimensioni in gioco, immaginiamoci per un momento che dei camion a tre assi (di quelli che spesso vediamo sulle nostre strade e autostrade impegnati in trasporti alimentari) siano riempiti a pieno carico di cibo destinato ad essere perduto (nell’esempio, piuttosto vicino alla realtà, approssimiamo a 20 tonnellate per camion il carico di alimenti). Otterremmo così un “serpente” ininterrotto di veicoli, in fila uno dietro l’altro, in grado di fare venti volte il giro dell’equatore. Forse questa proporzione restituisce meglio le proporzioni del problema messo a fuoco dallo studio Fao. Il rapporto, finanziato dal governo tedesco, costituisce il primo serio tentativo di approfondire il problema dell’impatto ambientale delle perdite alimentari sul pianeta, approfondendo le conseguenze in termini climatici, di risorse idriche sprecate, di uso del territorio e perdita di biodiversità. “Ogni anno – si legge nel testo – il cibo che viene prodotto, ma non consumato, sperpera un volume di acqua pari al flusso annuo di un fiume come il Volga; utilizza 1,4 miliardi di ettari di terreno, quasi il 30% della superficie agricola mondiale, ed è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra. Oltre a questo impatto ambientale, le conseguenze economiche dirette di questi sprechi (esclusi pesci e frutti di mare), si aggirano secondo il rapporto intorno ai 750 miliardi di dollari l’anno”. Le cose non migliorano granché se restringiamo l’indagine alla specifica realtà italiana: secondo una nota Coldiretti sul tema, “ogni persona in Italia ha buttato nel bidone della spazzatura ben 76 chili di prodotti alimentari durante l’anno, con una tendenza positiva alla riduzione provocata dalla crisi, che negli ultimi cinque anni ha ridotto di circa il 25% gli avanzi da gettare. “Il contenimento degli sprechi – prosegue la nota – e’ forse l’unico aspetto positivo della crisi che ha determinato una maggiore attenzione degli italiani alla spesa, ma anche alla preparazione in cucina ed alla riutilizzazione degli avanzi”. “Restano comunque quasi 5 milioni le tonnellate di cibo che ogni anno vengono gettate nelle case degli italiani,  un problema etico con effetti sul piano economico ed anche ambientale per l’impatto negativo dello smaltimento, nei confronti del quale e’ giusto intervenire sia nei paesi sviluppati che in via di sviluppo”. Suolo e Salute, sensibile a queste problematiche e in particolare a modelli di sviluppo sostenibili per l’uomo come per l’ambiente, ha dedicato in passato più di un approfondimento sul tema. In particolare è stato intervistato dal nostro giornale il professor Andrea Segré, preside della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Bologna, da anni impegnato con il progetto Last Minute Market proprio nella direzione di una sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema delle perdite alimentari e su una concreta riduzione degli sprechi stessi.

Fonte: Suolo e Salute, Agrapress, Greenreport

Prodotti verdi, nuova indagine della Commissione Europea

Una recente indagine della Commissione Europea, dal titolo “Opinioni degli europei riguardo alla costruzione del mercato unico dei prodotti verdi”, fa il punto sull’orientamento del consumatore europeo rispetto al mercato dei prodotti verdi. Stando ai dati del rapporto, la quasi totalità dei cittadini dell’Unione è effettivamente convinta del fatto che gli acquisti “green” possano recare effettivi benefici all’ambiente (l’89% degli intervistati), e una percentuale similare degli intervistati ritiene che l’efficacia di questi prodotti sia paragonabile a quelli “normali” (il 74% di chi ha risposto all’indagine”). Tra i cittadini europei, portoghesi, francesi, belgi e maltesi sono i più fiduciosi rispetto al fatto che i prodotti verdi siano effettivamente e concretamente meno dannosi per l’ambiente, mentre tedeschi, romeni e olandesi nutrono maggior perplessità.

Interessante anche la percezione e la considerazione espresse dai consumatori europei rispetto alle dichiarazioni dei produttori: solo poco più della metà dei cittadini interpellati ritengono affidabili le indicazioni fornite dalle aziende, sintomo questo di una certa diffidenza di fondo rispetto alle molte operazioni di “green washing” che sono fiorite negli ultimi anni sull’onda della crescente coscienza ambientale dei consumatori.

Anche sotto il profilo della garanzia dei prodotti, la richiesta dei consumatori è chiara: i due terzi degli europei si dichiara infatti disposta a pagare di più un prodotto che abbia una garanzia di cinque anni e ben il 92% dei potenziali acquirenti ritiene che dovrebbe essere riportata la durata di vita in un prodotto. Sfiduciata dai costi eccessivi, la metà dei cittadini oggetto dell’inchiesta hanno dichiarato che nell’ultimo anno hanno rinunciato a far riparare un prodotto per le spese troppo elevate che dovrebbero affrontare.

Prudenza anche nel caso specifico dei prodotti agroalimentari, dove il 45% degli intervistati considera poco sicuro consumare prodotti oltre la data di scadenza. Con molte sfumature: per i tre quarti degli inglesi e degli austriaci il consumo oltre la data riportata in etichetta non sembra particolarmente rischioso, mentre solo un romeno e un lituano su cinque farebbe altrettanto.

L’indagine della Commissione ha riguardato oltre 25.000 cittadini nei 28 stati membri dell’Unione, e ha riguardato diverse fasce sociali e demografiche.

Non aiuta di certo il fiorire di marchi e informazioni a volte in contraddizione tra loro, che rischiano seriamente di aggiungere confusione e disorientamento.Proprio per questo, all’interno della campagna di comunicazione “Costruire il mercato unico dei prodotti verdi” è stato lanciato un progetto pilota in cui i più importanti produttori del settore avranno l’obiettivo di elaborare nuove metodologie per misurare l’impatto ambientale dei loro prodotti, con l’obiettivo ultimo di aumentare la fiducia del consumatore, delle imprese stesse e degli investitori in un settore di mercato sempre più importante a livello globale.

Fonte: Corriere Ortofrutticolo – Mangia Bio

“Prodotto in Bretagna”, compie 20 anni il marchio di qualità

Viene dalla Francia un’esperienza di particolare interesse anche per il nostro paese, patria delle tipicità agroalimentari. Compie infatti 20 anni  il marchio collettivo “Prodotto in Bretagna”, nato appunto nel 1993 con l’obiettivo di tutelare e promuovere prodotti, aziende e lavoro locali.

Stando a quanto riporta il settimanale francese “L’Express”, ripreso da Agrapress, l’associazione ad oggi conta 312 membri, il 44% provengono proprio dal settore agroalimentare. Nei vent’anni di attività, l’associazione è stata in grado di contribuire alla creazione di quasi 30.000 posti di lavoro, grazie ad una strategia basata su solidarietà tra aderenti, prossimità territoriale e qualità dei prodotti.

I criteri per aderire all’associazione sono tanto semplici quanto rigorosi: l’azienda che fa domanda di accesso deve svolgere la propria attività in Bretagna da almeno tre anni, avere una situazione finanziaria solida e perseguirebuone pratiche sociali e ambientali. Una commissione esamina le domande che vengono poi valutate anche dal consiglio direttivo, dopodiché l’azienda è pronta ad entrare versando una quota variabile dai 500 ai 15.000 euro a seconda del tipo di attività e del fatturato.

Grazie all’unione delle aziende bretoni, l’iniziativa è stata in grado di portare anche all’estero i prodotti bretoni grazie alla creazione di “Bretagne Excellence”, composta ad oggi da 34 società alimentari che dal 2011 esportano il meglio della produzione locale e che intendono aprirsi a breve anche all’export di prodotti freschi.

Tutto ciàò è stato reso possibile soprattutto tramite l’autofinanziamento, che copre ben l’85% dei fondi a disposizione, mentre il resto deriva da contributi dell’amministrazione regionale e dai consili generali bretoni. Un caso davvero interessante di iniziativa imprenditoriale locale che, mettendo al primo posto la qualità dei prodotti, è riuscita a creare lavoro fornendo importanti strumenti in grado di rispondere all’attuale crisi economica puntando sulle eccellenza locali.

Fonte: L’Express, Agrapress

La FAO contro i pesticidi tossici

All’indomani del tragico incidente avvenuto in Bihar, India del Nord, la Fao in una nota ribadisce la necessità di eliminare l’utilizzo di pesticidi particolarmente nocivi per la salute umana. “Il tragico incidente avvenuto in Bihar, india, in cui 23 bambini hanno perso la vita dopo aver mangiato un pasto contaminato con il pesticida monocrotophos, ci ricorda ancora una volta quanto sia importante che i pesticidi altamente tossici vengano ritirati dai mercati dei paesi in via di sviluppo”.

LA vicenda è avvenuta in una scuola elementare di Jajauli, un povero villaggio distante un centinaio di chilometri da Patna, capoluogo della regione. Molti alunni (di età compresa tra i 4 e gli 8 anni) hanno cominciato a presentare gravi sintomi di intossicazione dopo aver consumato un pasto della mensa scolastica. Purtroppo per molti di loro le conseguenze sono state fatali. Per ironia della sorte, il pasto rientrava nell’ambito dell’iniziativa “Midday meal schemè”, con la quale il governo indiano ha introdotto un programma nazionale di mensa gratuita nelle aree più povere del paese, per combattere la malnutrizione.

Il monocrotophos é un pesticida organofosforico  ritenuto ad alto rischio sia dalla FAO che dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Per la sua acclarata pericolosità, è già stato bandito, oltre che in Europa e negli Stati Uniti, anche in Cina, Australia, e in numerosi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.

Fonte. Agrapress, Repubblica.it