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QUANTO È BIOLOGICA LA NOSTRA CARNE?

QUANTO È BIOLOGICA LA NOSTRA CARNE?

L’allevamento bio cresce soprattutto nel comparto ovino e caprino, mentre la crisi inflattiva penalizza suini e polli. L’analisi del sito “Statista” sul mercato tedesco

Il comparto zootecnico è una delle grandi speranze per la realizzazione del Green deal. Se finora infatti la crescita del bio era stata trainata da ortofrutta e cereali, oggi l’attenzione al benessere animale e la crescita della domanda di carne e latte bio stimola lo sviluppo di biodistretti dove l’allevamento è ben integrato nel territorio. La crisi inflattiva comincia però a farsi sentire anche in questo settore, non solo in Italia, ma in tutta Europa. In Germania, ad esempio, l’allevamento bio è stato al centro di un approfondimento del sito Statista, specializzato nelle analisi grafiche “espresso”.

Crescita del 70% in dieci anni

Nel 2022 l’agricoltura biologica in Germania ha infatti prodotto circa 137.000 tonnellate di carne, ovvero oltre il 70% in più rispetto a dieci anni prima.

Sembra una grande quantità, ma in realtà rappresenta ancora solo una piccola frazione della produzione locale di carne e ci sono molte differenze riguardo alle specie allevate.

La percentuale di carne suina proveniente da agricoltura biologica è infatti solo dello 0,8%, quella del pollame dell’1,6% e quella della carne bovina del 6,9%. Solo la carne ovina e caprina rappresenta una quota a due cifre della produzione totale (rispettivamente 13,5 e 13%).

Il peso della crisi economica

«Evidentemente – conclude il sito di analisi economiche – i cittadini europei si comportano in maniera differente quando sono consumatori. Affermano infatti di non volere “fabbriche agricole”, ma vogliono pollo e suino a prezzi che solo l’allevamento industriale può offrire, solo perché non contabilizza i costi indiretti in termini di impatto ambientale e climatico». Qualcosa di simile capita anche nel nostro Paese.

Cresce la domanda di carne biologica

Consumatori sempre più orientati verso la carne biologica. L’attenzione del mercato si sposta dunque su allevamenti selezionati, controllati e che rispondono ai criteri del bio. Una domanda che, però, in Italia non riesce ancora a trovare piena risposta.

Ne è convinto Marco Guerrieri, responsabile carni Coop Italia che spiega: “La richiesta di carni bio, rosse e bianche in particolare, supera di gran lunga l’offerta. Tant’è che per soddisfare la domanda, puntiamo a sviluppare allevamenti biologici strutturati selezionando i nostri migliori produttori: sono già partiti alcuni progetti pilota».

Sono oltre un migliaio i produttori zootecnici italiani e circa 200 le aziende dedite alla trasformazione e vendita del proprio prodotto. Il settore è in crescita, ma si potrebbe far di più per aiutare gli allevamenti biologici.

Paolo Carnemolla,presidente di FederBio, afferma: “Purtroppo si è fatto poco per sviluppare la filiera. I piani di sviluppo rurale non premiano la zootecnia e persino la Pac (Politica agricola comune) ha tolto il premio “qualità” per i capi bovini bio. Adesso stiamo portando avanti un progetto in regione che mira alla produzione di carne bovina bio, commercializzata con il marchio Bioalleva“.

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Uno dei problemi più grossi che arresta l’avanzamento del settore è la mancanza di strutture idonee con terreni adibiti alla coltura di cereali biologici. È infatti proprio il costo del mangime bio a incidere maggiormente sulla quota di produzione di carne biologica.

Nonostante questo, la crescita del settore sembra in arrestabile e si può intuire dai dati suggeriti da Guerrieri al Corriere di Bologna: In Emilia-Romagna, e su scala nazionale, la richiesta di carni bio nella grande distribuzione è incrementata mediamente del 5% da ottobre-novembre 2015. Una percentuale che in due anni arriverà a sfiorare il 30%“. Secondo i dati di Coop Italia, “attualmente l’avicolo bio conta su un giro d’affari pari a 11.000.000 euro annui (il 3% dell’avicunicolo complessivo)“.

Chi acquista è sempre più interessato sulla provenienza del prodotto, vuole garanzie sulla sua bontà, tenerezza e sapidità e, in alcuni casi, preferisce alimenti confezionati con un packaging innovativo .

La scelta di carne biologica rivela dunque che i consumatori sono sempre più attenti alla sostenibilità dei prodotti, ma anche alla propria salute.

Secondo un recente studio effettuato dall’università di Newcastle e pubblicato dal British Journal of Nutrition, i prodotti biologici hanno il 50% in più di acidi grassi omega3, ritenuti benefici per la salute, mentre il contenuto dei grassi nocivi è nettamente minore. A determinare la differenza,  il tipo di alimentazione degli animali negli allevamenti biologici.

Fonti:

http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/economia/2016/11-febbraio-2016/dopo-l-allarme-oms-boom-carne-bio-24038109581.shtml

http://www.ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/alimentazione/2016/02/16/in-carne-e-latte-biologici-piu-omega-3meno-grassi-cattivi_b8e1ee0d-25db-41b4-b330-d11d9a66b844.html

Farmageddon la vera faccia degli allevamenti intensivi

Ben più di una riflessione ne nasce dopo aver letto il libro Farmageddon  –  il vero prezzo della carne economica di Philip Lymbery, dove ne evince un’indagine globale sul resoconto delle devastanti modalità di produzione di carne e pesce, e dell’impatto anche a livello ambientale. Viene spontaneo a chiedersi qual è l’impatto che la produzione massiccia di carne ha sull’ambiente? Quale il reale costo? E proprio a queste domande ha cercato di rispondere  nel suo libro Philip Lymbery, direttore generale della ong CIWF-Compassion in World Farming, scritto in collaborazione con la giornalista Isabel Oakeshott.

Gli allevamenti intensivi risultano essere devastanti per gli animali, per l’uomo, per il Pianeta, la loro espansione nel suolo terrestre e nei mari genera effetti devastanti. All’interno di questo raccapricciante scenario finiscono la metà degli antibiotici fabbricati al mondo e buona parte delle monocolture di cereali e soia.  Nello specifico secondo quanto rivelato dal Ciwf oltre il 50% dei cereali prodotti in Italia è utilizzato per nutrire gli animali (stime basate su dati Faostat); il 71% degli antibiotici venduti in Italia è destinato agli animali (fonte: Ecdc/Efsa/Ema). E ancora, il nostro Paese è il terzo maggiore utilizzatore di questi medicinali negli animali da allevamento in Europa, dopo Spagna e Germania (European Medicines Agency).

E le emissioni? Il 79% delle emissioni di ammoniaca prodotte in Italia proviene dall’allevamento come il 72% delle emissioni di gas serra generate dall’agricoltura (Ispra).

Operazioni decisamente insostenibili, soprattutto se si pensa che questi numeri sono di gran lunga superiori, rapportati alla produzione mondiale di carne.

allevamenti intensivi

Con la sua indagine, Lymbery ha solo dato conferma di quanto gli allevamenti intensivi rechino sofferenza agli animali e danno alle comunità locali. Animali rimpinzati di cibo eppur costretti a vivere in spazi angusti, in cui è difficile muoversi. Malattie causate dallo stress e dal sovraffollamento degli allevamenti, curate con antibiotici e farmaci vari che causano la proliferazione di superbatteri antibiotico resistenti. Come afferma lo stesso Lymbery: “Ciò nonostante il sistema intensivo continua a prevalere. Sono in gioco enormi interessi che permettono introiti straordinari grazie a una formula pensata proprio per i grandi profitti, anziché per  nutrire le persone in modo dignitoso. I governi perseguono apparenti successi sul breve periodo, senza prendere atto del danno a lungo termine: l’allevamento intensivo non è sostenibile per nessuno“.

Poi c’è anche il problema dello smaltimento degli escrementi, che in Paesi come il Perù, a esempio, vengono semplicemente buttati in mare o nel terreno dove, ovviamente, inquinano. Altro discorso grave collegato agli allevamenti intensivi sono le coltivazioni di mangime che rubano spazi e risorse alla Terra. Si disbosca, si distrugge, come se non dovesse esserci un domani, come se ciò che dobbiamo avere oggi sia più importante di ciò che i nostri figli non avranno in un futuro neanche troppo lontano.

Ecco un passaggio raccapricciante : “La corsa cinese alla produzione suina è carica di orrore fantascientifico. Stipulato nel 2011 un accordo d’oro con la Gran Bretagna, interi Boeing 742 affittati al costo di 420mila euro a viaggio hanno portato migliaia di maiali vivi e fertili  “di prima qualità” negli stabulari orientali, dove tutto è così automatizzato che un uomo solo può gestire tremila animali spingendo qualche bottone. Seguendo la politica della più sregolata quantità si sono selezionati esemplari così grassi da non potersi reggere sulle fragili zampe, imbottiti di sostanze pericolose, e  interi laghi sono tanto contaminati dai loro liquami che l’acqua non è più potabile“.

Sono tante ormai le persone che hanno preso consapevolezza dell’insostenibilità degli allevamenti intensivi e dello sfruttamento animale. Per scelte etiche e di amore, sempre più persone hanno abbracciato la dieta vegana o vegetariana. Lymbery propone un compromesso: “Sostenere una produzione di cibo che sia in grado di rimettere gli animali all’aria aperta, al pascolo, anziché dentro capannoni; un allevamento estensivo connesso alla terra, in grado di fornire cibo più nutriente con metodi che risultano migliori sia per il territorio che per il benessere animale. I governi di tutto il mondo possono contribuire a migliorare la salute delle loro nazioni e salvaguardare le future scorte alimentari basandosi su risorse naturali come i pascoli. Cibo che insomma provenga da fattorie, e non da fabbriche“.