Suolo e Salute

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PIÙ SURGELATI, PIÙ COSTI IN BOLLETTA E INQUINAMENTO

PIÙ SURGELATI, PIÙ COSTI IN BOLLETTA E INQUINAMENTO

Nel 2021 gli italiani hanno ancora aumentato il consumo dei prodotti surgelati. Un paradosso in un periodo di caro energia e crisi ambientale.

Cresce il consumo di surgelati ma non è una buona notizia per la nostra crescita sostenibile. La catena del freddo infatti ci permette di consumare prodotti di origini remote e fuori stagioni, ma ad un costo ambientale e in bolletta che non può essere ignorato. Lo mette in evidenza il blog www.prontobolletta.it che evidenzia le difficoltà di un momento storico in cui vengono imposte riduzioni di consumi energetici per l’alto costo del kWh.

Il boom del freezer

Tuttavia, secondo l’ultimo report dell’Istituto Italiano degli Alimenti Surgelati (IIAS) gli italiani nell’ultimo anno hanno aumentato il livello dei consumi dei prodotti alimentari surgelati, che segue già ad un aumento record per il periodo del 2020. In questi anni infatti vi era stato un aumento notevole di consumi per il surgelati, nonostante i ristoranti siano stati per molto tempo chiusi o ad attività ridotta.  Solo nel 2020 sono state consumate quasi 600 mila tonnellate di cibo surgelato venduto alle famiglie italiane, arrivando a praticamente 900 mila tonnellate di cibo surgelato includendo anche le attività commerciali e di ristorazione.

Dati giustificati dal cambio inevitabile dei comportamenti di acquisto degli italiani a causa del confinamento dovuto al covid, ma che non sono migliorati con il 2021.

La fine del lockdown non incide

Il 2021 infatti ha portato ancora un aumento del 5% su queste cifre. In totale nel 2021 sono state consumate 940 mila tonnellate di cibo congelato, una cifra che porta ad affermare che, in media, ogni italiano abbia consumato 16 kg di cibo congelato in quell’anno, 0,8 kg in più rispetto al 2020.

 

I vegetali sono la fetta maggiore di questo mercato con più di 250 mila tonnellate nel 2021, seguono i prodotti ittici (pesce, molluschi e crostacei) a 115 mila tonnellate all’anno. In terza posizione troviamo pizze e snack che si avvicinano alle 100 mila tonnellate di cibo. Particolarmente impressionante la quantità delle patate surgelate consumate: 83 mila tonnellate l’anno, un prodotto a lunga conservazione che potrebbe essere facilmente consumato fresco.

Tutto questo porta ad un mercato che ormai vale tra i 4,6 e i 4,8 miliardi di euro in Italia.

Il costo in bolletta

L’aumento del consumo per la catena del freddo incide molto sulla bolletta energetica. Basti pensare che ad oggi, i nuovi prezzi Arera per il mercato tutelato e le sue offerte luce si fermano a 0,2959 €/kWh, uno dei prezzi più alti degli ultimi mesi e, soprattutto degli ultimi anni. Con questi prezzi, un piccolo congelatore casalingo di appena mezzo metro cubo di volume porta a un costo aggiuntivo di oltre 30 euro al mese con questa tariffa con una potenza di 300W e una durata mensile di 300 ore di attività (i più moderni congelatori si attivano e disattivano per mantenere la temperatura costante). Questo aumento del consumo dei surgelati ha portato anche ad una crescita del 16,8% nel 2020 e 2021 di congelatori e di frigoriferi con congelatori incluso con relativo aumento dei consumi per molte famiglie italiane.

L’impronta di carbonio

Per ogni 30 kg di prodotti surgelati si possono calcolare 390 kg di anidride carbonica secondo l’IIAS per l’intero processo di produzione, trasporto, refrigeramento e stoccaggio. Si può facilmente quindi calcolare come rispetto allo scorso anno sono state emesse 650 mila tonnellate di CO2 solo per la catena del freddo.

 

Fonte prontobolletta.it

EARTH OVERSHOOT DAY 2021: SIAMO OSPITI INGOMBRANTI CHE POSSONO (ANCORA) AGIRE

EARTH OVERSHOOT DAY 2021: SIAMO OSPITI INGOMBRANTI CHE POSSONO (ANCORA) AGIRE

Siamo ospiti, recita il titolo di una canzone contemporanea, ma se potessimo aggiungere un aggettivo che qualifica il nostro modo di esserlo, sarebbe ingombranti.

Siamo ospiti ingombranti che il 29 luglio hanno già esaurito le risorse biologiche che gli ecosistemi del pianeta possono rinnovare nell’arco dell’intero anno.

Ad annunciarlo è la consigliera Susan Aitken, leader del consiglio comunale di Glasgow, portavoce per la Global Footprint Network e per SEPA – Agenzia scozzese per la protezione dell’ambiente.

Siamo già in debito di risorse alimentari, CO2, spazio occupato e di tantissimo altro.

Siamo ospiti bizzarri anche, perché a questa faccenda dell’esaurimento delle risorse, abbiamo dato un nome: Earth Overshoot Day. Letteralmente, Giorno dell’over sfruttamento della Terra.

Nomi che servono, come a ricordare: “che siamo nella morsa di un’emergenza climatica ed ecologica”, sottolinea Susan Aitken.

Ma la storia si ripete, poiché nel 2019 l’Overshoot day era scattato esattamente lo stesso giorno. Come monito questa volta, che due anni e una Pandemia non sono stati sufficienti a contenere il nostro modo di essere ospitati da questo pianeta, o addirittura comprendere, che non ne siamo i padroni.

Nel 2020 infatti, la biocapacità forestale complessiva è calata dello 0,5%.
4,2 milioni di ettari di foresta primaria tropicale umida – cruciale per la custodia della biodiversità –, sono andati distrutti. Foresta diffusa prevalentemente in Brasile e nella Repubblica Democratica del Congo.

La ripresa delle attività economiche principali nel 2021, ha comportato un aumento delle emissioni di CO2 legate al consumo di energia, quasi del 5%; si rende sempre più necessario il contenimento del carbone, combustibile fossile di grande impatto (40%) nel contributo alle emissioni di CO2.

Alcune varianti attuali rispetto al 2019, causate dalla Pandemia ancora presente, sono: la riduzione delle emissioni legate ai voli soprattutto internazionali (33% in meno) e più in generale, ai trasporti di tipo stradale (5 % in meno).

Se proviamo a stilare una classifica dei paesi “più ingombranti”, ovvero quelli che consumano maggiormente su questo pianeta: in pole position troviamo gli Stati Uniti, che hanno esaurito le risorse annue già il 14 marzo 2021. Lo seguono Australia, Corea del Sud, Russia e Italia.

Secondo un calcolo effettuato, servirebbero ben 1,7 pianeti per soddisfare la voracità con cui gli esseri umani consumano risorse primarie all’interno dell’universo.

Di contro, esistono paesi che riescono in qualche modo a contenere i consumi: tra questi spicca la Colombia, Cuba e il Nicaragua. Una concentrazione di stati del centro e sud America, che con i suoi dati, contribuisce all’emersione del divario delle modalità di utilizzo delle risorse e del procedere delle economie dei paesi.

E a proposito di dialogo tra differenti modelli, forte è l’attesa per la Conferenza delle Parti sul cambiamento climaticoCop 26, appuntamento in programma a Glasgow, atteso come momento di occasione prezioso per la finalizzazione di un’azione collettiva contro i cambiamenti climatici.

In quest’ottica, il 29 luglio, ha visto il lancio della campagna dal titolo “100 days of possibility”.

L’iniziativa prevede la pubblicazione, sul sito dell’Earth Overshoot day, di una soluzione concreta al giorno per invertire la rotta del sovrasfruttamento delle risorse.

L’obiettivo è ritardare così, la data dell’overshoot – annualmente registrata, a mo’ di campanello d’allarme del nostro modo di “consumare” il pianeta -.

Azioni tangibili dunque, per prevenire fenomeni frequenti come lo spreco alimentare. Piccole grandi iniziative rivoluzionarie, quali la produzione di cemento low carbon, la promozione dell’ecoturismo, una rivisitata gestione dei gas refrigeranti.

Siamo ospiti agenti, che possono farsi trovare preparati. Determinante, sarà la velocità d’organizzazione che dimostreremo da questo momento in poi.

 

Fonte: Lifegate

PRODUTTIVITÀ AGRICOLA A RISCHIO: L’INQUINAMENTO RIDUCE LE POTENZIALITA’ DEI SUOLI DEL 25%

PRODUTTIVITÀ AGRICOLA A RISCHIO: L’INQUINAMENTO RIDUCE LE POTENZIALITA’ DEI SUOLI DEL 25%

Il successo dei sistemi agroalimentari futuri, dipende dall’attenzione che riserviamo alla protezione dei suoli nel mondo.

Ad affermarlo è il direttore della FAO, Qu Dongyu, che sottolinea l’urgenza di una risposta coordinata per affrontare l’inquinamento del terreno, attraverso il miglioramento della salute del suolo e il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

L’intervento di Dongyu è avvenuto in occasione della presentazione da parte della FAO, del Global Assessment of Soil Pollution, il rapporto sull’inquinamento dei terreni presenti nel mondo.

Secondo i risultati forniti dal rapporto, la contaminazione dei suoli operata da agenti inquinanti, può diminuirne il tasso di produttività dal 15 al 25%.

Le conseguenze penalizzano diversi fronti: prime fra tutte, le popolazioni più fragili del pianeta; queste, vivono prevalentemente le aree rurali e da tali territori, traggono sussistenza alimentare diretta, dal terreno.

Inoltre ben 15 dei 17 obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo Sostenibile, sono penalizzati nella realizzazione dalla ridotta capacità di esercizio, da parte dei suoli inquinati, di offrire servizi ecosistemici fondamentali.

Infine, i terreni danneggiati, contribuiscono all’inquinamento delle acque dolci e marine fino all’80%, limitando l’accesso a beni primari per buona parte della popolazione e riducendo così, la capacità di ritenzione di CO2; capacità imprescindibile per il contributo alla lotta del cambiamento climatico.

Pesticidi, fertilizzanti e alcuni contaminanti (tra questi ultimi: arsenico, rame, cromo, mercurio, nichel, piombo, zinco e cadmio) sono gli altri fattori co-responsabili nella minaccia alla salubrità del suolo.

Nei diciassette anni successivi al 2000, l’uso dei pesticidi ha riscontrato un aumento del 75%. Glifosato, fungicidi, ddt e altre sostanze hanno lasciato tracce nell’80% dei suoli coltivati in tutta Europa.

Per quanto riguarda i fertilizzanti, solo nell’anno 2018 sono stati registrati circa 109 milioni di tonnellate di sostanze di tipo sintetico utilizzate, a base di azoto.

Una delle conseguenze di questo impiego in Europa, consiste nei valori critici che la presenza di azoto raggiunge nel deflusso verso acque di superficie nel 65-75% dei terreni agricoli.

La produzione annua di prodotti chimici di tipo industriale, dall’inizio del XXI secolo, è raddoppiata in tutto il mondo; raggiungendo i 2,3 miliardi di tonnellate.
La previsione indica un aumento notevole: fino all’85% entro il 2030.

Inger Andersen, segretario esecutivo dell’Unep, ha identificato, tra le soluzioni ai risultati riportati nel rapporto, alcune direzioni di movimento, oltre all’ovvio taglio sull’utilizzo di prodotti chimici. Tra queste figurano: l’adozione di un’agroeconomia di tipo circolare; la rotazione delle colture e un consumo diffuso, in linea generale, più sostenibile.

 

Fonte: Cambia la Terra

ALLEVAMENTI INTENSIVI: SOTTOSTIMATE LE EFFETTIVE EMISSIONI DI GAS METANO

ALLEVAMENTI INTENSIVI: SOTTOSTIMATE LE EFFETTIVE EMISSIONI DI GAS METANO

Un’analisi proveniente dai ricercatori della New York University, in collaborazione con il rinomato centro di ricerca della Jhon Hopkins University del Maryland, rivela che le emissioni di gas metano causate dalla produzione di carne e latte negli Stati Uniti, sono maggiori di quanto è stato regolarmente dichiarato.

La sottostima, evidenzia la ricerca, oscillerebbe dal 39 al 90% in più di quanto calcolato fino ad ora; lo studio è stato pubblicato sulla rivista di settore: Environmental Research Letters.

L’analisi preleva i dati dell’EPA – Environmental Protection Agency, ente che riporta annualmente all’interno di un inventario, le emissioni di gas serra rilevate.

Nell’ultimo decennio sono stati messi in verifica molti degli studi effettuati e il livello di metano emesso, è stato monitorato proprio nell’aria sopra gli allevamenti: il risultato della quantità di metano esalata dal bestiame è stato maggiore di quello stimato in precedenza; un dato che mette in forte discussione i riscontri registrati nel passato.

A causare questa percentuale di gas metano è la digestione e conseguente defecazione di mucche e pecore e di tutti gli animali da allevamento.

In America e in Canada il bestiame è ammassato in capannoni più che affollati e le mucche in sale di mungitura dove risiedono stipate, all’interno di stabilimenti intensivi non salubri per il loro mantenimento e alimentazione. Il risultato è la produzione di quantitativi di letame piuttosto significativi.

La cifra di emissioni raggiunta nel 2017 è di 596 milioni di tonnellate, un record senza precedenti. Nel 2020 invece, la concentrazione di metano nell’atmosfera ha raggiunto i 1.875 ppb.

Metthew Hayek, scienziato ambientale della New York University, racconta come le emissioni di metano provenienti dallo stile di vita dei bovini, sia cresciuto drasticamente negli ultimi 15 anni. Hayek si occupa infatti di approfondire l’impatto che i sistemi alimentari hanno sull’ambiente.

A partire dal 2009 è stato stimato che circa due terzi dell’aumento delle emissioni antropogeniche, proviene dall’agricoltura e dalla produzione di carne rossa e latticini. Il rimanente deriva dalle emissioni derivanti dalla produzione e consumo di combustibili fossili.

Il Programma delle Nazioni Unite, è dell’opinione che ridurre questo tipo di emissioni, sarebbe un modo efficace per contrastare in tempi brevi il riscaldamento globale.

Gli scienziati del Global Carbon Project, sottolineano la necessità di regolamenti rapidi per mitigarle, poiché l’effetto di riscaldamento del gas metano è molto forte, più di quello dell’anidride carbonica.

Le banche e le agenzie governative, conclude Hayek, stanno assumendo più rischi climatici di quanto immaginano, nel finanziare gli allevamenti intensivi e la loro crescita. Dovrebbero seriamente prendere in considerazione le conseguenze di queste iniziative, tra cui vi è inoltre, l’inquinamento delle acque, le epidemie di malattie infettive di origine animale e molto altro.

Lo scopo finale deve essere quello di un reindirizzamento delle politiche e dei valori alla base del sistema alimentare, che proseguendo invece sulla traiettoria ora in atto, potrebbe determinare non solo un aumento della temperatura media globale di 3-4 gradi in questo secolo, ma l’imbocco di una china seriamente pericolosa per l’intero pianeta.

Fonte: Cambia la terra

INQUINAMENTO GENETICO: A RISCHIO LA SOPRAVVIVENZA DELLE API AUTOCTONE

INQUINAMENTO GENETICO: A RISCHIO LA SOPRAVVIVENZA DELLE API AUTOCTONE

Pesticidi e un ambiente agricolo sempre più semplificato sembrano essere le cause alla base della difficile sopravvivenza delle api autoctone, a segnalarlo sono gli agricoltori biologici di UPBIO – Unione Nazionale Produttori Biologici e Bioninamici.

L’avvento dell’industrializzazione infatti e il suo modello culturale di riferimento, ha  contribuito ad alterare anche questo settoreIl Sud America per esempio, ormai un secolo addietro, ha vissuto l’importazione di una sottospecie di ape di origine africana: l’Apis mellifera scutellata. Questa, incrociandosi con le api locali, ha generato a un ibrido talmente aggressivo da mettere k.o. per molti anni l’apicoltura di quel territorio. Ma il caso sudamericano non è il solo, poiché l’illusione di una maggiore produzione, conduce aziende apistiche italiane all’abbandono di api autoctone in favore di quelle ibride appunto, o non locali.

La credenza è legata al fenomeno dell’eterosi, che se nella prima generazione apporta in effetti una generosa produzione, già nella seconda l’effetto scompare, in favore di un incremento dell’aggressività delle api.

Poiché gli ibridi non sono stabili e smarriscono la loro produttività nelle generazioni successive, gli apicoltori, per mantenere il livello di performance sostenuto, applicano il trucco di sopprimere le regine figlie per poi sostituirle con nuovi ibridi.

A causa della modalità di accoppiamento delle api regine, che ha luogo in volo, con numerosi maschi e a una distanza significativa dall’alveare di origine, l’inquinamento genetico si diffonde fortemente, con la perdita di sottospecie autoctone. Questa ragione assieme alle altre citate, rende difficoltoso agli apicoltori più volenterosi e rispettosi di un metodo sostenibile, continuare ad allevare le api del proprio territorio salvaguardandone l’equilibrio originario.

Per salvarle dunque, è necessario che ogni soggetto implicato compia un suo pezzo: gli apicoltori dovrebbero concentrarsi sull’allevamento delle sole  api locali, al fine di favorire l’equilibrio con l’ambiente – queste ultime inoltre, risultano a studi scientifici, più resistenti in situazioni di stress ambientale oltre ad avere la caratteristiche di essere più docili e generose nella produzione di miele -.
Gli agricoltori convenzionali invece, dovrebbero contribuire alla messa in atto di pratiche più sostenibili e friendly per le stesse api, iniziativa che favorirebbe per altro una migliore impollinazione delle proprie colture.

Infine i consumatori farebbero la loro parte, selezionando la scelta, con l’acquisto di cibi la cui produzione non danneggi l’ambiente e quindi le api autoctone. Nel rispetto di tutto l’ecosistema.

Fonte: Sassi Live

LA NUOVA PAC NON PIACE AGLI AMBIENTALISTI

LA NUOVA PAC NON PIACE AGLI AMBIENTALISTI

Vi invitiamo a leggere questo editoriale di Damiano Di Simine scritto per l’Espresso in cui troverete una lettura delle possibile conseguenze ambientali sulla Pianura Padana, già messa a dura prova da decenni di allevamenti intensivi. Secondo il giornalista, la nuova PAC affonderà ancora di più questo territorio.

QUI L’ARTICOLO INTEGRALE: https://espresso.repubblica.it/attualita/2020/10/28/news/il-green-deal-fa-flop-sfuma-la-riforma-dell-agricoltura-sostenibile-1.355008